Grazie
al "Gruppo di ricerca sull'industria bellica del distretto
industrial-militare varesino", autore collettivo del libro stesso,
che Elio Pagani e Marco Tamborini possono proseguire la loro lotta nonviolenta
contro gli indirizzi della produzione di Aermacchi e dell'intero settore
bellico, nonché la loro iniziativa tesa a coniugare Diritto alla Pace e Diritto
al Lavoro … (attraverso) … un progetto ambizioso, di cui questo libro
rappresenta la prima timida creatura: mettere le basi per creare un Osservatorio
permanente sull'industria militare nel "distretto industrial-militare
varesino".
Attraverso
questo libro prosegue, e in un certo senso riparte con più vigore, l'iniziativa
antimilitarista di Elio e Marco e della realtà di movimento che essi hanno
rappresentato, prima in fabbrica (l'Aermacchi di Varese) dentro il
sindacato e tra i lavoratori, poi fuori della stessa (poiché espulsi
brutalmente …), tra i colleghi in cassa-integrazione a zero ore e nel
territorio.
Un
distretto che vede fin dagli inizi del secolo produrre al suo interno molti dei
sistemi militari aeronautici del nostro Paese, per una quota che oggi ammonta a
circa il 50% del totale; un luogo da cui si sono tessuti rapporti commerciali,
legali ed illegali, relativi a sofisticati sistemi d'arma e di cui sono estrema
sintesi gli episodi emersi dagli scandali sui casi delle armi italiane in
Sudafrica, Argentina, Iran e Iraq, o dalle indagini sul trafficante siriano di
armi e droga Henry Arsan, arrestato in passato a Varese dal giudice Palermo, o
da quelle del sostituto procuratore di Como, Romano Dolce, che in una recente
inchiesta su un traffico di materiale nucleare, ispezionò le banche varesine e
sentì come "persona informata sui fatti" il segretario amministrativo
della DC di Varese. Una Provincia che ha sempre fornito alle Commissioni Difesa
un numero rilevante dei suoi parlamentari -di diverse forze politiche-, spesso
particolarmente attenti alle esigenze della produzione militare e sempre pronti
a venire in soccorso delle industrie belliche locali con adeguati emendamenti alle
ipotesi iniziali di spesa militare.
Obiettivo
di questo progetto, non è ovviamente quello di "fare
concorrenza" agli Osservatori regionali già esistenti (a partire da
quello lombardo), anzi, piuttosto quello di radicare nel territorio, così
caratterizzato dalla presenza produttiva bellica, tra la sua gente,
un'attenzione specifica, costante, sui temi del significato di quella stessa
produzione e sulla necessità-possibilità della riconversione al civile.
E'
stata infatti l'assenza di preesistenti, estesi legami col territorio, e più
ancora un'opinione pubblica, una società locale -civile e politica-
sostanzialmente refrattaria ai loro appelli, che ha sfavorito la possibilità
fossero coronati di pieno successo i progetti che Elio e Marco sono andati
propugnando a nome del loro Comitato e di tutti i cassaintegrati … di Aermacchi
e dell'intero settore militare.
….
Marco entrò in fabbrica nel 1961, visse gli anni del primo boom produttivo,
legato alle esportazioni dei velivoli di concezione aziendale MB326 a paesi
come l'Australia, ma anche al Brasile dei militari, al Sudafrica razzista,
ecc., accordi commerciali questi che accompagneranno la storia produttiva di
Aermacchi. All'inizio degli anni settanta egli fu con altri alla testa del
movimento di rinnovamento delle strutture di rappresentanza dei lavoratori in
fabbrica e nel sindacato. Questa esperienza informò tutta la sua storia
successiva, facendogli porre al centro di ogni tornante sindacale, le questioni
della democrazia, dell'egualitarismo, della solidarietà e
dell'internazionalismo, di sistemi di relazioni industriali fondate
sull'autonomia dei soggetti e sulla capacità di lotta promossa dai lavoratori.
Elio
varcò neodiplomato i cancelli dell'azienda nel 1974, all'inizio del secondo
boom produttivo di Aermacchi dovuto ai nuovi sviluppi nelle esportazioni e
produzioni su licenza delle versioni armate del MB326 (Brasile e Sudafrica
compresi), e alla definizione di nuovi velivoli (MB339 ed MB340, poi
abbandonato a favore della coproduzione italo-brasiliana di AMX). Eletto
delegato nel 1975, condivise ben presto con Marco l'impegno che la Federazione
Lavoratori Metalmeccanici nazionale stava sviluppando attorno alla questione
della produzione bellica e all'idea di una nuova solidarietà internazionale.
La
FLM nazionale aveva iniziato nel 1976, in coincidenza col boom generalizzato
dell'esportazione di armi e delle leggi di promozione della produzione
militare, una campagna che si
proponeva da una parte l'approvazione in parlamento di una legge per il
controllo e la limitazione dell'esportazione di armi, dall'altra una sensibilizzazione
dei lavoratori del settore bellico volto ad ottenere un atteggiamento di
rifiuto e di opposizione a quelle esportazioni che ledevano i principi e le
raccomandazioni dell'Onu ed i diritti umani e dei popoli, nonché il rifiuto
della logica della corsa al riarmo che si andava riaccendendendo tra Est e
Ovest e che era stata ulteriormente stimolata dalla guerra del Kippur e dalla
sete di armi che pervase il Terzo Mondo ed in particolare il Medio Oriente.
I
motivi di questo tipo di iniziativa non risiedevano solo in una precisa scelta
di politica internazionale dell'Organizzazione, suffragata per altro da
analoghe decisioni della Federazione Europea dei Metalmeccanici e della
Confederazione Internazionale dei Sindacati Liberi, ma partivano anche da
valutazioni di tipo economico e da altre di tipo etico. Dal punto di vista
economico si riteneva che il rinnovato sforzo nella produzione militare avrebbe
distratto ingenti risorse che potevano essere impiegate a raddrizzare le sorti
dell'industria civile, piegata dalla prima grande crisi energetica. Dal punto
di vista etico si era posto il problema di come garantire una condotta
rivendicativa coerente che ottenesse una inversione di rotta sui trend
della produzione militare pur salvaguardando l'occupazione e, ancor più, evitando
-con affermazioni o rivendicazioni- il coinvolgimento dell'organizzazione nelle
iniziative della lobby militare che in quegli anni faceva sentire la sua
voce ad un livello mai prima udito dalla fase del disarmo postbellico.
Questo
secondo tipo di atteggiamento fu assunto anche a seguito di quanto accadde
negli anni precedenti attorno al caso del velivolo multinazionale multiruolo
MRCA Tornado (quello che ha operato per le forze alleate nella guerra contro
l'Iraq).
In
quell'occasione la FLM, si disse, fu costretta suo malgrado a firmare, sotto
ricatto occupazionale, un accordo sindacale che prevedeva il lancio del
programma suddetto prima ancora che il Parlamento lo avesse approvato, anzi
inducendo quindi quest'ultimo ad approvarlo, o comunque offrendo al Governo una
giustificazione aggiuntiva che ne motivasse il lancio.
In
questo contesto si inserì l'iniziativa di Elio e Marco (e di altri lavoratori e
delegati) che ben presto divennero punti di riferimento territoriale e
aziendale della struttura nazionale della FLM prima e della FIM-CISL poi.
Quando
qualcuno volesse ricostruire la storia sindacale di Aermacchi o delle
iniziative territoriali o provinciale, ovvero di altre aziende militari del
"distretto" (Agusta, Siai Marchetti, Caproni, Secondo Mona,
Borletti), si imbatterebbe dunque in documenti che comprovano l'esistenza di
iniziative anche clamorose, più spesso silenziose e quotidiane attinenti al
tema in questione: definizione di strutture permanenti di lavoro, assemblee tra
i lavoratori o tra i cittadini, ordini del giorno, collette di solidarietà con
popoli o movimenti vittime del fuoco delle armi italiane, o a promozione di
"operazioni di diversificazione al civile", scioperi, digiuni collettivi, questionari,
corsi monografici "150 ore", richieste di informazioni specifiche e
piattaforme contenenti rivendicazioni volte ad ottenere impegni aziendali di
diversificazione e riconversione.
I
due hanno operato dentro un tessuto sindacale che ha dunque assecondato o
addirittura promosso questo tipo di iniziative.
Nondimeno,
lo storico rileverebbe anche elementi e situazioni opposte a quelle appena
descritte: prese di posizione, spinte o accordi lobbistici (o quantomeno molto
ambigui) sia in tema di export di armi, che in tema di produzione destinata
alla domanda interna. Una parte del sindacato non aveva infatti mai condiviso
gli obiettivi che prima si descrivevano e che pure la struttura nazionale aveva
assunto a livello unitario, anzi forte ed aperto divenne, in certe situazioni,
il sostegno di quella fazione a programmi militari. Si dispiegò cioè un conflitto
tra due correnti che spesso attraversavano tutte e tre le organizzazioni dei
lavoratori, la parte che risultò e che ancora risulta "vincente" è
quella che rifiuta un approccio etico-politico del problema "produzione
militare". Nella parte "soccombente"
ritroviamo, con altri, Elio e Marco.
Lo
schieramento cui appartenevano Elio e Marco riuscì a conseguire nel tempo
alcuni successi. Tuttavia, mentre i lobbisti nel decennio 1975-1985 ottenevano
vittorie quotidiane documentate dal grosso crescere di fatturato e di
occupazione dell'industria bellica nazionale, gli altri riuscirono appena a
porre le basi per la costruzione negli anni immediatamente successivi, di una rete
di Osservatori sull'Industria Militare (a partire da iniziative di
ricerca indipendenti -già presenti- come Archivio Disarmo ed Irdisp di Roma,
Gruppo di Studio su Armi e Disarmo di Milano). Il tessuto di delegati sensibili
costruito tra il 1976 ed il 1980 aveva inoltre fatto sperimentare una serie di piattaforme
orientate alla diversificazione. Tale esperienza da una parte pose le
fondamenta per nuove e questa volta "vittoriose" rivendicazioni
per la diversificazione (vedi ad es. gli accordi Aermacchi e Galileo del 1988),
dall'altra aveva fatto maturare la convinzione fosse necessario supportare le
rivendicazioni di fabbrica da specifiche leggi e fondi di riconversione
(nulla di ciò è però finora stato approvato nonostante i progetti di legge
presentati su tale materia). Dopo quindici anni di iniziative a suo supporto fu
infine licenziata nel 1990 una legge per il controllo delle esportazioni
belliche.
Prendono
corpo, in questa lotta tra opposti schieramenti dentro il sindacato, anche
alcune iniziative clamorose di Elio e Marco. Essi, assieme ad altri due
lavoratori Aermacchi: Angelo e Basilio, nella primavera del 1986 fanno pubblica
dichiarazione di obiezione di coscienza alle spese militari, in
particolare nei confronti di quelle spese destinate ai sistemi d'arma di tipo
aggressivo. La lettera aperta inviata a questo scopo all'allora Presidente
della Repubblica Cossiga, viene diffusa tra i colleghi ed alla stampa. Nello
stesso tempo uno sciopero della fame da essi organizzato contro
l'esportazione di armi e per la riconversione, trova l'adesione di una decina
di colleghi. Un precedente digiuno gandhiano di cinque giorni
organizzato nel 1984 contro gli euromissili e la corsa al riarmo aveva
coinvolto una quindicina di delegati dell'industria bellica varesina e decine
di persone vi avevano aderito
in segno di solidarietà. Nel marzo del 1988, Elio denunciò in
un'intervista a Famiglia Cristiana la violazione, da parte di Aermacchi,
degli embarghi ONU del 1972 e edel 1977 concernenti l'esportazione di armi
al Sudafrica, nonché i rapporti commerciali da essa intrattenuta nei confronti
sia dell'Iran che dell'Iraq nonostante l'imperversare della guerra tra i due
paesi. L'iniziativa che rimbalzò immediatamente su tutte le principali testate
giornalistiche e televisive grazie all'appoggio dato ad Elio dal Comitato
Contro i Mercanti di Morte, suscitò sussulti e scontri anche dentro il
sindacato ed aprì le porte alla definizione di quella piattaforma per il
controllo dell’export di armi e per la riconversione, prima
ricordata, che si concluse con il primo accordo sulla diversificazione al
civile in Aermacchi. Lo sviluppo, la produzione ed il montaggio di
sottoinsiemi del velivolo da trasporto regionale Dornier 328, è
conseguenza anche di questo accordo.
Dopo qualche mese Marco venne dalla Direzione
"confinato" in un locale isolato. Di fronte ad una debole reazione
sindacale, l'Azienda rincara la dose ed aprì quello che tutti i lavoratori
chiameranno "il reparto confino".
Nel novembre del 1989 Elio si dichiarò obiettore di
coscienza alla produzione militare e chiese il trasferimento al neonato
settore civile. La sua richiesta venne accolta, tuttavia, il profilarsi della
crisi e della conseguente ristrutturazione offriranno all'azienda un'occasione
d'oro per liberarsi in un sol colpo dei due.
Il
7 gennaio 1991 Elio, Marco, il 90% dei componenti il Comitato per la
Democrazia e la Solidarietà, di cui Marco faceva parte, il 50% del Collettivo
della Fim-Cisl, di cui Elio era responsabile per i problemi della
riconversione, furono espulsi in cassa integrazione a zero ore. L'11% dei
lavoratori (su oltre 2700) erano stati "tagliati", tra essi molti
malati cronici e donne. "La partita era chiusa". Quella "cellula
di lavoratori antimilitaristi cresciuta in seno alla fabbrica degli aerei da
combattimento" di cui parlava un giornale locale (La Prealpina) il 31
agosto del 1990, scompaginata. La maggior parte dei portatori di idee
alternative circa la gestione e lo sbocco della crisi di Aermacchi era ormai
privato anche della voce, isolato fisicamente dalla massa dei lavoratori.
E'
così che è nato il Comitato dei Cassaintegrati Aermacchi per la Pace e il
Diritto al Lavoro. Dalla necessità di Elio P., Marco, Raffaele L.,
Rossana, Elisabetta, Franco O., Elio C., Antonio, Raffaele C., Franco R.,
Vincenzo, Ambrogio, Mario e Giuseppe, di reagire all'espulsione, di trovare il
modo di gridare con tutto il fiato rimasto che esisteva anche (e ancora) un'altra
strada al di là di quella brutale dell'azienda e che, comunque, anche se
non la si sarebbe mai percorsa perchè mancava la volontà politica di
farlo da parte dei soggetti che l'avrebbero potuto, proprio perchè eticamente
corretta essa era anche economicamente e tecnicamente praticabile.
Occorreva
insomma riconfermare i contenuti di una battaglia decennale, intensificatasi
nei 6 mesi precedenti l'espulsione. Scopo di questa lotta fu anzitutto il
tentativo di arginare la deriva lobbistica del sindacato, che a
seconda dei casi coinvolgeva una parte (in particolare Fiom e Uilm) o, più
raramente, la quasi totalità dei suoi dirigenti (anche della Fim). Tali
iniziative sindacali andarono dal rifiuto del "blocco del turn-over"
-4 mesi prima della esplicitazione da parte aziendale del ricorso alla Cassa
integrazione-, al rifiuto tout-court della Cassa integrazione stessa con lotte
"ad alto clamore" in corrispondenza del dibattito parlamentare sulla
spesa militare. Si esplicitarono nella richiesta di finanziamenti statali da
destinarsi allo sviluppo del nuovo addestratore militare PTS2000 (a fronte di
una consegna appena ultimata all'Aeronautica Militare di un centinaio di
velivoli MB339), nella rivendicazione della paternità sull'ottenimento di 510
miliardi a favore dei programmi dei caccia AMX ed EFA, il primo dei quali era
stato messo in forse dal dibattito sulla riduzione delle forze convenzionali in
Europa e soprattutto dalla dissoluzione del nemico, il secondo messo in
discussione anche per i suoi costi astronomici, ecc..
A
questi comportamenti furono contrapposti, da parte dei lavoratori e delegati di
cui si parla, l'applicazione immediata del blocco delle assunzioni,
l'uso dei contratti di solidarietà e della cassa integrazione
a rotazione, l'adozione di criteri di protezione delle fasce più deboli,
la richiesta di iniziative aziendali di riconversione, la definizione di
mobilitazioni e lotte per ottenere dallo Stato adeguati finanziamenti ai
progetti di diversificazione e riconversione al civile. Il metodo
proposto a supporto di tali tesi era la richiesta di un'adesione convinta e
diretta dei lavoratori attraverso la discussione e la votazione collettiva
nonché l'estensione della piattaforma e della lotta su di essa alle
altre aziende del settore aeronautico e militare dato il carattere comune
della crisi. Di queste proposte solo una minima parte fu assunta dal sindacato,
nonostante il favore che esse avevano riscosso tra i lavoratori. Inoltre, si
giunse anche ad operare un vergognoso boicottaggio nei confronti di chi proponeva
queste cose, vuoi attraverso l'espropriazione della possibilità di parlare in
assemblea, vuoi col rifiuto della consultazione dei lavoratori sulle proposte
alternative (voto).
Di fronte alla necessità di riproporre con forza questi
obiettivi, ovvero agire per coniugare diritto al Lavoro e diritto alla
Pace e di fronte alla necessità di esprimere la totale alterità dei
suoi aderenti nei confronti della guerra che si avvicinava, il Comitato decise
di iniziare un digiuno in piazza. Questo
sciopero della fame condotto da chi su quegli obiettivi non
poteva più "astenersi dal lavoro", era pensato come un digiuno a
staffetta per tenere la piazza e l'attenzione della pubblica opinione per
almeno una settimana. Durò un mese intero. La Pace non doveva far paura ai
lavoratori del settore militare: la società civile, lo Stato avevano
l'obbligo di aiutarli a trovare alternative produttive ed occupazionali, era la
guerra che doveva far paura.
La roulotte fu installata in piazza del Podestà a Varese il 16
gennaio grazie anche al supporto del Mir-Movimento Nonviolento che cogestì col
comitato l'iniziativa. La prima notte di digiuno coincise con l'inizio della
nuova grande guerra del Golfo: la botola dell'inferno si era scoperchiata,
dentro la roulotte si vegliava ignari.
Ben presto la "Roulotte della Pace"
divenne il punto di riferimento di un movimento contro la guerra che coinvolse
diversi soggetti in città ed in provincia. Un telefono installato in roulotte e
l'uso del fax concesso da Cisl ed Acli, permise collegamenti ben più vasti che
fruttarono la solidarietà di alcuni parlamentari nazionali ed europei.
Attraverso di essi il Comitato riuscì a far discutere i propri obiettivi in
Parlamento (es. presso la XI^ Commissione Lavoro, il Sottosegretariato del
medesimo Ministero, i parlamentari presentatori delle proposte di legge sulla
riconversione - a questo proposito da questi incontri scaturì pure una proposta
di legge popolare sulla riconversione presentata da donne parlamentari
di diversi partiti-, ecc.).
Per
quegli obiettivi digiunarono una settantina di persone tra cui intellettuali
varesini, religiosi, singoli cittadini. Attorno a quegli obiettivi si raccolse
una significativa adesione di forze sociali e, almeno a parole, anche di parte
del sindacato, delle forze politiche e delle istituzioni: alcuni Consigli
Comunali espressero ad es. Ordini del Giorno a favore della riconversione di
Aermacchi e delle altre aziende del "distretto industrial-militare"
varesino.
Preziosissimo
il contributo di gruppi come il Comitato contro la Guerra del Golfo di Busto
A..
Quest'ultimo
organizzò una rete di solidarietà anche economica che si rivelò di grande aiuto
alle figure più deboli operanti in seno al Comitato dei cassaintegrati,
permettendo loro di continuare ad occuparsi del perseguimento degli obiettivi
che il Comitato stesso si era dato.
Secondo
il Comitato una decisa iniziativa di riconversione non era più rinviabile. Essa
non solo avrebbe permesso di coniugare diritto alla Pace e diritto al lavoro,
ma era la sola via effettivamente praticabile da Aermacchi per mantenere le
dimensioni raggiunte. Le iniziative di lobby militare avrebbero potuto solo
rallentare il processo di contrazione degli occupati, ma, concorrendo con
analoghe spinte di altre aziende ed attori sociali, avrebbero prodotto effetti
negativi sulle politiche di sicurezza e di difesa del Paese.
Alla
proposta di riconversione la direzione aveva tuttavia già opposto quattro
argomenti, mai seriamente contestati dalle organizzazioni sindacali.
L'azienda
si sarebbe trovata in svantaggio nel passare
da un mercato artificiale, quale quello "politico" degli aerei
da guerra, ad uno non protetto, quale quello concorrenziale dell'aviazione
civile, in cui occorre "saper nuotare" con costi competitivi. Il
passaggio al civile avrebbe avuto l'effetto di dimezzare i profitti garantiti
dai prezzi finali "drogati" dei prodotti bellici. Questo passaggio
inoltre, dovendo abbattere i costi, sarebbe stato incompatibile con la salvaguardia
dell'occupazione. Inoltre, passando al civile, come l'operazione Dornier 328
dimostrava, sarebbero mutati il know-how aziendale ed i connotati del mix
occupazionale operai/impiegati a sfavore dei secondi, tecnici resi inutili da
una metamorfosi dell'azienda a terzista su programmi altrui.
A
queste affermazioni i lavoratori e i cassaintegrati contrapponevano le seguenti
valutazioni: anche il mercato civile aeronautico è un mercato
"politico", non regolato dalle dinamiche della domanda e
dell'offerta, e soprattutto non determinato in assoluto, in fase di
concorrenza, dalla competitività dei costi di produzione. Del sostegno pubblico
al mercato civile è prova il piano Airbus, voluto da Francia, Germania e
Gran Bretagna ma non dall'Italia, e contestato dagli USA proprio per l'uso di
fondi pubblici nazionali e sovrannazionali a copertura dei costi. I margini di
profitto del militare sono in declino nel nuovo quadro internazionale, e i
problemi dei costi e del "saper nuotare" si sarebbero posti
ugualmente. La maggiore efficienza consentita dalle recenti ristrutturazioni
produttive, rendendo l'azienda più consona al mercato, avrebbe agevolato la
riconversione al civile. La ricerca e la progettazione nel settore civile, se
operate in certi settori e se opportunamente finanziate dallo Stato, non erano
affatto incompatibili con la tipologia occupazionale dell'azienda. Alcune
opportunità offerte dal settore civile si presentavano addirittura anche più
promettenti e praticabili che non quelle militari: esempi fatti dai lavoratori
comprendevano il settore spaziale, gli aerei antincendio, i ricognitori
ecologici, la coprogettazione di velivoli all'idrogeno, l'ingresso nei
programmi Airbus, lo sviluppo di particolari produzioni in conto terzi,
ecc..
In
generale, la riconversione industriale avrebbe dovuto essere sostenuta da
opportuni interventi del governo centrale attraverso una nuova domanda
pubblica capace di orientare lo sviluppo economico in senso ecopacifista e con
leggi e piani finanziari ad hoc (es. con leggi e fondi di riconversione
al civile).
Il
Comitato era consapevole che una tale operazione di riconversione avrebbe
potuto significare sacrifici anche per la "forza lavoro". Secondo il
Comitato, tuttavia, tali sacrifici potevano non comportare l'espulsione
definitiva o "dolorosa" dei lavoratori. La soluzione stava nell'uso
di ammortizzatori sociali più "morbidi" già esistenti come i Contratti
di Solidarietà, o di altri da creare ad hoc (venivano proposte
misure specifiche "dedicate" agli esuberi del settore militare, da inserire in quello
che era il progetto di legge 223: es. obbligo di sperimentazione -prima
dell'uso di misure più drastiche- dei Contratti di Solidarietà e della Cassa
Integrazione a rotazione, trasferimento da posto di lavoro a posto di
lavoro -pubblico o privato-, corsi di riqualificazione
professionale, sostegno aggiuntivo al reddito commisurato a criteri di
tutela delle figure più deboli, riduzioni settoriali di orario, prepensionamenti,
ecc.).
L'insistenza
su queste ultime proposte non avevano "a causa" lo stato economico
-non certo felice- dei cassaintegrati del Comitato (950.000 £. nette al mese),
bensì una decennale riflessione su due fattori che occorreva fossero
necessariamente considerati dai Decision Makers: la peculiarità del
mercato del lavoro dell'industria bellica sia in termini di "qualità"
delle professionalità coinvolte dai processi di espulsione, sia soprattutto per
l'effetto di reazione alla minaccia di disoccupazione che spingeva i lavoratori
a lasciarsi "affascinare" dalle facili e sperimentate proposte
lobbistiche che puntavano a una domanda bellica aggiuntiva e dunque a nuova
spesa militare.
Un
tale approccio era inoltre ulteriormente giustificato dalle "attese"
relative ai dati occupazionali del settore, per i mesi e degli anni successivi,
che indicavano per l'Italia "tagli" di migliaia di posti di lavoro ed
in Europa ed in USA per centinaia di migliaia.
Secondo
il Comitato, dunque, tra produzione militare e produzione civile la scelta non
era economica o strategica, ma prima di tutto culturale, morale e politica.
Per premere su chi quelle scelte poteva fare davvero, il
Comitato operò per un anno con iniziative più o meno "clamorose".
Praticamente totale era l'egemonia dello stesso sui cassaintegrati, forte
l'ascendente delle sue proposte tra i lavoratori che erano però invitati a
scegliere tra queste e pervicaci sentimenti aziendalistici o corporativi e ad
abbandonare gli atteggiamenti di delega e il pregiudizio cinico e perverso che
associa la Pace alla disoccupazione e la guerra al superminimo più alto. In
ogni assemblea vi era inoltre il contemporaneo tentativo di smorzare gli
effetti di quell'ubriacatura ideologica che quasi da ogni parte, con potenti
mezzi di persuasione, esalta come un bene necessario la guerra e le sue
tecnologie di morte e legittima come morale, anche agli occhi di tecnici ed
operai, qualunque egoismo di gruppo e qualunque strategia d'impresa, non
importa per produrre cosa e ai danni di chi.
Adesione alle proposte del Comitato vennero anche da delegati
dell'Agusta, dell'Aeritalia (Alenia) di Nerviano e dalla Borletti (Fiat-Ciei)
-aziende del distretto industrial/militare varesino-, cosi come da delegati
della Piaggio di Finale Ligure e della Aeritalia (Alenia) di Torino.
In particolare, nel luglio del 1991, un gruppo di lavoratrici
e lavoratori della Borletti stabilì una roulotte in una piazza di Legnano e a
staffetta condusse un analogo sciopero della fame sui medesimi obiettivi del
Comitato Aermacchi. In questo caso la lotta fu gestita direttamente dal
sindacato Fim-Cisl e, per i suoi obiettivi, digiunò un intero consiglio
comunale, sindaco in testa (il paese era quello di S.Giorgio dove aveva sede
una delle unità produttive della azienda).
Alcuni obiettivi relativi alla protezione dei lavoratori, già
proposti dal Comitato, furono poi conquistati per gli operai e i tecnici Agusta
attraverso le stesse lotte sindacali.
Queste iniziative generose non riuscirono tuttavia a
coagulare una vera e propria risposta complessiva ed operativa di tipo
sindacale e sociale. Convegni sindacali internazionali come quello di Arge-Alp
del dicembre 1991 (che coinvolse le segreterie lombarde di Cgil-Cisl-Uil) o
quello della Fim-Cisl Nazionale (Bologna, ottobre 1992) non si spinsero oltre
il, pur importante, livello di analisi e le proposte ivi formulate non superarono il livello "cartaceo". Ciò
spinse il Comitato a farsi veicolo di una proposta di legge regionale per
la promozione della riconversione dell'industria bellica appoggiato (e
quindi formalmente presentato) da Consiglieri lombardi di diversi partiti (Dc,
Dp-Prc, Pci-Pds, Psi, Antiproibizionisti, Verdi-Verdi Arcobaleno).
Il
riconoscimento che una conoscenza più diffusa nel territorio della realtà
rappresentata dalle industrie belliche avrebbe favorito le spinte alla
riconversione, e la convinzione che per meglio definire l'azione di chi avesse
voluto operare per la pace -dentro e fuori l'industria militare- era necessario
aggiornare il quadro interpretativo della realtà espresso nel pensiero
strategico-militare, suggerirono il tentativo di creare il già citato Osservatorio
sull'industria militare distrettuale. L'avvio del Gruppo di ricerca fu
possibile anche grazie all'interesse espresso attorno al progetto da gruppi di nonviolenti
e di comitati contro la guerra operanti nel varesotto ed in particolare grazie
alla costituzione di una "Rete di sostegno ai cassaintegrati operanti
nell'Osservatorio" stesso.
Se
si volesse sintetizzare la nuova coscienza emersa dall'analisi rigorosa del
gruppo di ricerca, con le parole dei cassaintegrati Aermacchi, diremmo che si
tratta di passare dalla lotta contro l'Apartheid sudafricano alla lotta contro
l'Apartheid mondiale.
La
lucidità dell'analisi e delle proposte di questi cassaintegrati è forse
possibile coglierla anche in episodi come la visita in Aermacchi, il 28 marzo scorso, alla vigilia
delle elezioni politiche -periodo notoriamente carico di promesse elettorali-
dell'allora Presidente della Repubblica Cossiga e dell'ex Ministro della
Difesa, e propugnatore del Nuovo Modello di Difesa, On. Rognoni, pronti, a
sentire i giornali, a cogliere il "grido di dolore che veniva dalle
maestranze e dalla proprietà" circa le sorti di una, in passato, così
fiorente industria. In quell'occasione i cassaintegrati -anche se dirigenti
sindacali- non solo non furono invitati,
ma nemmeno informati dell'arrivo di questi così importanti interlocutori. E' anche così che vengon
curate le ferite indirettamente inferte dall'iniziativa dei cassaintegrati all'immagine
aziendale, e che si ripropone il quadro di garanzie scosso dalle proposte
alternative.
Il
libro si oppone a questo tentativo ed offre invece un contributo che gli autori
si augurano possa aiutare a non rimuovere la realtà e dunque possa aiutare a ri-orientare
e ri-definire la prassi pacifista e nonviolenta dei soggetti, movimenti
ed istituzioni che operano contro la guerra. Quanto segue è un primo
suggerimento che può essere colto dalla lettura dei risultati di questa
ricerca.
Il
testo del Nuovo Modello di Difesa (NMD) offre una nuova rappresentazione alla
polarità spaziale "distanza/vicinanza" e nello stesso tempo a
quella temporale del "prima/durante". In entrambi i casi tale
polarità è dissolta: la distanza coincide con la vicinanza ed il durante non si
distingue dal prima.
Con
estrema chiarezza il NMD sostiene la necessità sia tutelata la riproduzione del
modello di sviluppo industriale capitalistico occidentale ovunque essa
sia messa in discussione entro uno qualsiasi dei gangli della interdipendenza
mondiale. Ciò è permesso dall'uso di tecniche, di strumenti e di sistemi
militari che, potremmo dire, hanno il dono dell'ubiquità. Circa la
seconda delle polarità, anche in questo caso le teorizzazioni degli strateghi
militari e politici sanzionano una realtà che non si struttura sulla alterità
dicotomica del tempo di pace e del tempo di guerra. Tale
differenza si stempera in una omologazione cronologica al tempo unico della
cosiddetta prevenzione attiva. All'onni-presenza spaziale si associa una
onni-presenza temporale in cui è il tempo stesso che "rallenta nel
presente" di fronte alla massa materiale e immateriale dei sistemi d'arma
che rendono sicuro l'occidente conferendogli una garanzia di onni-potenza.
Non
ci sarebbe, dunque, più attimo della nostra esistenza che possa essere pensato
come "altro o "fuori" o "immune" dal tempo di guerra:
persino il tempo del servizio civile è funzionalmente pensato, previsto e
organizzato come momento integrato dello strumento bellico "esercito"
a supporto della sua progressiva professionalizzazione.
Cosa
dunque dire e fare di fronte ai nuovi conflitti militari, ora che
la guerra fredda è finita con la sconfitta dell'"impero del male"? Ma
anzitutto, come e dove collocarsi, da parte di chi si dice
pacifista o nonviolento di fronte ai Desert Storm, alla guerra su territorio
jugoslavo, alle superarmate scorte di viveri per la Somalia, ai conflitti
interasiatici che insanguinano popoli dell'ex URSS e che "reclamano l'intervento
della NATO"?
La
risposta può non essere univoca, tuttavia è opportuno che l'iniziativa di chi
voglia essere operatore di Pace tenga conto, nella sostanza come nella forma,
della reale configurazione dell'agire (fini, modi, soggetti, oggetti, spazi
e tempi) di coloro i quali teorizzano, e praticano, il nuovo concetto di vigilanza
militare a guardia del nuovo ordine gerarchico internazionale.
Quali
dovrebbero essere gli scopi di una azione pacifista quando il fine della
sicurezza nel nuovo pensiero militare, ciò che giustifica la prevenzione
armata e l'intervento militare, è la tutela o il ripristino di un interesse
economico o culturale (del paese o dell'occidente) ovunque esso sia violato?
Chi
e a fianco di chi mobilitarsi, quando
il nuovo pensiero militare nasconde l'identità del nemico dietro
l'apocalittica immagine di orde barbariche sottosviluppate, spesso connotate da
ideologie islamiche? E quando l'iniziativa militare amica può essere
presa indifferentemente dal nostro Paese dalla UEO, dalla NATO dall'ONU o da
una qualsiasi nuova Alleanza o dagli Stati Uniti di turno?
In
che modo dispiegare una azione
nonviolenta o pacifista, o come efficacemente affermare il rifiuto della
guerra, o contestarne il suo uso, di fronte alla gigantesca dimostrazione di potenza
e di efficacia dell'iperguerra moderna?
Dove agire quando il conflitto, che pare avere
localizzazione lontana, si dispiega sopra i tuoi cieli, dall'aeroporto vicino
alla tua casa, o ha base nel tuo porto, o prende mosse dalla caserma che ti stà
dirimpetto, o è un velo che tutto copre con quei fili invisibili di onde
elettromagnetiche che si tramano, che si annodano e rimbalzano sopra il tuo
tetto, o quando infine la guerra ti si siede davanti quando ti adagi sulla
poltrona e pigi il bottone del telecomando?
Quando agire, se le armi usate in quella guerra da entrambi
i contendenti sono il frutto di miliardi di ore-lavoro-mente che hanno
occupato anche le tue ore, o riguardano
parenti o amici o membri della stessa città in cui vivi, o della stessa provincia?
Quando, se quegli elicotteri o quegli aeroplani che hai visto combattere nelle
due schiere li hai sentiti, due o dieci anni prima, ronzarti sopra la testa la
loro capacità a librarsi in aria, fieri come ipogrifi di razza? Quando, se non
esiste più un prima ed un poi ma esiste il tempo uniforme
della sicurezza?
Allorquando
ci si appresta a prendere decisioni sul da farsi, è sempre opportuno, cercare
di evitare le distorsioni percettive della realtà derivanti da modelli obsoleti
di interpretazione della stessa. Questo rischio ci pare oggi più che mai
presente, portandoci a fare i conti con rappresentazioni mentali o
giuridico-istituzionali dei rapporti internazionali che sembrano ancora
efficaci, quando ormai nei fatti, e qualche volta anche nella forma, risultano
entrambe superate.
Il
libro, frutto di una ricerca ancor più vasta di quanto in esso non trovi
espressione, vuole aiutare a fare chiarezza su queste nuove coordinate della
realtà.
Dall’introduzione del libro “Nuovo ordine militare
internazionale. Strategie. costi, alternative”
(autori: V. Caimi, F. Carcano, E. Pagani, R. Romano,
A.S. Rossi, M. Tamborini; Ed. Gruppo Abele, 1993)
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