lunedì 2 gennaio 2017

Accadeva all'Aermacchi di Varese



Grazie al "Gruppo di ricerca sull'industria bellica del distretto industrial-militare varesino", autore collettivo del libro stesso, che Elio Pagani  e Marco Tamborini  possono proseguire la loro lotta nonviolenta contro gli indirizzi della produzione di Aermacchi e dell'intero settore bellico, nonché la loro iniziativa tesa a coniugare Diritto alla Pace e Diritto al Lavoro … (attraverso) … un progetto ambizioso, di cui questo libro rappresenta la prima timida creatura: mettere le basi per creare un Osservatorio permanente sull'industria militare nel "distretto industrial-militare varesino".

Attraverso questo libro prosegue, e in un certo senso riparte con più vigore, l'iniziativa antimilitarista di Elio e Marco e della realtà di movimento che essi hanno rappresentato, prima in fabbrica (l'Aermacchi di Varese) dentro il sindacato e tra i lavoratori, poi fuori della stessa (poiché espulsi brutalmente …), tra i colleghi in cassa-integrazione a zero ore e nel territorio.


Un distretto che vede fin dagli inizi del secolo produrre al suo interno molti dei sistemi militari aeronautici del nostro Paese, per una quota che oggi ammonta a circa il 50% del totale; un luogo da cui si sono tessuti rapporti commerciali, legali ed illegali, relativi a sofisticati sistemi d'arma e di cui sono estrema sintesi gli episodi emersi dagli scandali sui casi delle armi italiane in Sudafrica, Argentina, Iran e Iraq, o dalle indagini sul trafficante siriano di armi e droga Henry Arsan, arrestato in passato a Varese dal giudice Palermo, o da quelle del sostituto procuratore di Como, Romano Dolce, che in una recente inchiesta su un traffico di materiale nucleare, ispezionò le banche varesine e sentì come "persona informata sui fatti" il segretario amministrativo della DC di Varese. Una Provincia che ha sempre fornito alle Commissioni Difesa un numero rilevante dei suoi parlamentari -di diverse forze politiche-, spesso particolarmente attenti alle esigenze della produzione militare e sempre pronti a venire in soccorso delle industrie belliche locali con adeguati emendamenti alle ipotesi iniziali di spesa militare.


Obiettivo di questo progetto, non è ovviamente quello di "fare concorrenza" agli Osservatori regionali già esistenti (a partire da quello lombardo), anzi, piuttosto quello di radicare nel territorio, così caratterizzato dalla presenza produttiva bellica, tra la sua gente, un'attenzione specifica, costante, sui temi del significato di quella stessa produzione e sulla necessità-possibilità della riconversione al civile.
E' stata infatti l'assenza di preesistenti, estesi legami col territorio, e più ancora un'opinione pubblica, una società locale -civile e politica- sostanzialmente refrattaria ai loro appelli, che ha sfavorito la possibilità fossero coronati di pieno successo i progetti che Elio e Marco sono andati propugnando a nome del loro Comitato e di tutti i cassaintegrati … di Aermacchi e dell'intero settore militare.

…. Marco entrò in fabbrica nel 1961, visse gli anni del primo boom produttivo, legato alle esportazioni dei velivoli di concezione aziendale MB326 a paesi come l'Australia, ma anche al Brasile dei militari, al Sudafrica razzista, ecc., accordi commerciali questi che accompagneranno la storia produttiva di Aermacchi. All'inizio degli anni settanta egli fu con altri alla testa del movimento di rinnovamento delle strutture di rappresentanza dei lavoratori in fabbrica e nel sindacato. Questa esperienza informò tutta la sua storia successiva, facendogli porre al centro di ogni tornante sindacale, le questioni della democrazia, dell'egualitarismo, della solidarietà e dell'internazionalismo, di sistemi di relazioni industriali fondate sull'autonomia dei soggetti e sulla capacità di lotta promossa dai lavoratori.
Elio varcò neodiplomato i cancelli dell'azienda nel 1974, all'inizio del secondo boom produttivo di Aermacchi dovuto ai nuovi sviluppi nelle esportazioni e produzioni su licenza delle versioni armate del MB326 (Brasile e Sudafrica compresi), e alla definizione di nuovi velivoli (MB339 ed MB340, poi abbandonato a favore della coproduzione italo-brasiliana di AMX). Eletto delegato nel 1975, condivise ben presto con Marco l'impegno che la Federazione Lavoratori Metalmeccanici nazionale stava sviluppando attorno alla questione della produzione bellica e all'idea di una nuova solidarietà internazionale.

La FLM nazionale aveva iniziato nel 1976, in coincidenza col boom generalizzato dell'esportazione di armi e delle leggi di promozione della produzione militare, una campagna che si proponeva da una parte l'approvazione in parlamento di una legge per il controllo e la limitazione dell'esportazione di armi, dall'altra una sensibilizzazione dei lavoratori del settore bellico volto ad ottenere un atteggiamento di rifiuto e di opposizione a quelle esportazioni che ledevano i principi e le raccomandazioni dell'Onu ed i diritti umani e dei popoli, nonché il rifiuto della logica della corsa al riarmo che si andava riaccendendendo tra Est e Ovest e che era stata ulteriormente stimolata dalla guerra del Kippur e dalla sete di armi che pervase il Terzo Mondo ed in particolare il Medio Oriente.
I motivi di questo tipo di iniziativa non risiedevano solo in una precisa scelta di politica internazionale dell'Organizzazione, suffragata per altro da analoghe decisioni della Federazione Europea dei Metalmeccanici e della Confederazione Internazionale dei Sindacati Liberi, ma partivano anche da valutazioni di tipo economico e da altre di tipo etico. Dal punto di vista economico si riteneva che il rinnovato sforzo nella produzione militare avrebbe distratto ingenti risorse che potevano essere impiegate a raddrizzare le sorti dell'industria civile, piegata dalla prima grande crisi energetica. Dal punto di vista etico si era posto il problema di come garantire una condotta rivendicativa coerente che ottenesse una inversione di rotta sui trend della produzione militare pur salvaguardando l'occupazione e, ancor più, evitando -con affermazioni o rivendicazioni- il coinvolgimento dell'organizzazione nelle iniziative della lobby militare che in quegli anni faceva sentire la sua voce ad un livello mai prima udito dalla fase del disarmo postbellico.
Questo secondo tipo di atteggiamento fu assunto anche a seguito di quanto accadde negli anni precedenti attorno al caso del velivolo multinazionale multiruolo MRCA Tornado (quello che ha operato per le forze alleate nella guerra contro l'Iraq).
In quell'occasione la FLM, si disse, fu costretta suo malgrado a firmare, sotto ricatto occupazionale, un accordo sindacale che prevedeva il lancio del programma suddetto prima ancora che il Parlamento lo avesse approvato, anzi inducendo quindi quest'ultimo ad approvarlo, o comunque offrendo al Governo una giustificazione aggiuntiva che ne motivasse il lancio.

In questo contesto si inserì l'iniziativa di Elio e Marco (e di altri lavoratori e delegati) che ben presto divennero punti di riferimento territoriale e aziendale della struttura nazionale della FLM prima e della FIM-CISL poi.
Quando qualcuno volesse ricostruire la storia sindacale di Aermacchi o delle iniziative territoriali o provinciale, ovvero di altre aziende militari del "distretto" (Agusta, Siai Marchetti, Caproni, Secondo Mona, Borletti), si imbatterebbe dunque in documenti che comprovano l'esistenza di iniziative anche clamorose, più spesso silenziose e quotidiane attinenti al tema in questione: definizione di strutture permanenti di lavoro, assemblee tra i lavoratori o tra i cittadini, ordini del giorno, collette di solidarietà con popoli o movimenti vittime del fuoco delle armi italiane, o a promozione di "operazioni di diversificazione al civile",  scioperi, digiuni collettivi, questionari, corsi monografici "150 ore", richieste di informazioni specifiche e piattaforme contenenti rivendicazioni volte ad ottenere impegni aziendali di diversificazione e riconversione.
I due hanno operato dentro un tessuto sindacale che ha dunque assecondato o addirittura promosso questo tipo di iniziative.

Nondimeno, lo storico rileverebbe anche elementi e situazioni opposte a quelle appena descritte: prese di posizione, spinte o accordi lobbistici (o quantomeno molto ambigui) sia in tema di export di armi, che in tema di produzione destinata alla domanda interna. Una parte del sindacato non aveva infatti mai condiviso gli obiettivi che prima si descrivevano e che pure la struttura nazionale aveva assunto a livello unitario, anzi forte ed aperto divenne, in certe situazioni, il sostegno di quella fazione a programmi militari. Si dispiegò cioè un conflitto tra due correnti che spesso attraversavano tutte e tre le organizzazioni dei lavoratori, la parte che risultò e che ancora risulta "vincente" è quella che rifiuta un approccio etico-politico del problema "produzione militare". Nella  parte "soccombente" ritroviamo, con altri, Elio e Marco.

Lo schieramento cui appartenevano Elio e Marco riuscì a conseguire nel tempo alcuni successi. Tuttavia, mentre i lobbisti nel decennio 1975-1985 ottenevano vittorie quotidiane documentate dal grosso crescere di fatturato e di occupazione dell'industria bellica nazionale, gli altri riuscirono appena a porre le basi per la costruzione negli anni immediatamente successivi, di una rete di Osservatori sull'Industria Militare (a partire da iniziative di ricerca indipendenti -già presenti- come Archivio Disarmo ed Irdisp di Roma, Gruppo di Studio su Armi e Disarmo di Milano). Il tessuto di delegati sensibili costruito tra il 1976 ed il 1980 aveva inoltre fatto sperimentare una serie di piattaforme orientate alla diversificazione. Tale esperienza da una parte pose le fondamenta per nuove e questa volta "vittoriose" rivendicazioni per la diversificazione (vedi ad es. gli accordi Aermacchi e Galileo del 1988), dall'altra aveva fatto maturare la convinzione fosse necessario supportare le rivendicazioni di fabbrica da specifiche leggi e fondi di riconversione (nulla di ciò è però finora stato approvato nonostante i progetti di legge presentati su tale materia). Dopo quindici anni di iniziative a suo supporto fu infine licenziata nel 1990 una legge per il controllo delle esportazioni belliche.

Prendono corpo, in questa lotta tra opposti schieramenti dentro il sindacato, anche alcune iniziative clamorose di Elio e Marco. Essi, assieme ad altri due lavoratori Aermacchi: Angelo e Basilio, nella primavera del 1986 fanno pubblica dichiarazione di obiezione di coscienza alle spese militari, in particolare nei confronti di quelle spese destinate ai sistemi d'arma di tipo aggressivo. La lettera aperta inviata a questo scopo all'allora Presidente della Repubblica Cossiga, viene diffusa tra i colleghi ed alla stampa. Nello stesso tempo uno sciopero della fame da essi organizzato contro l'esportazione di armi e per la riconversione, trova l'adesione di una decina di colleghi. Un precedente digiuno gandhiano di cinque giorni organizzato nel 1984 contro gli euromissili e la corsa al riarmo aveva coinvolto una quindicina di delegati dell'industria bellica varesina e decine di persone vi avevano aderito in segno di solidarietà. Nel marzo del 1988, Elio denunciò in un'intervista a Famiglia Cristiana la violazione, da parte di Aermacchi, degli embarghi ONU del 1972 e edel 1977 concernenti l'esportazione di armi al Sudafrica, nonché i rapporti commerciali da essa intrattenuta nei confronti sia dell'Iran che dell'Iraq nonostante l'imperversare della guerra tra i due paesi. L'iniziativa che rimbalzò immediatamente su tutte le principali testate giornalistiche e televisive grazie all'appoggio dato ad Elio dal Comitato Contro i Mercanti di Morte, suscitò sussulti e scontri anche dentro il sindacato ed aprì le porte alla definizione di quella piattaforma per il controllo dell’export di armi e per la riconversione, prima ricordata, che si concluse con il primo accordo sulla diversificazione al civile in Aermacchi. Lo sviluppo, la produzione ed il montaggio di sottoinsiemi del velivolo da trasporto regionale Dornier 328, è conseguenza anche di questo accordo.
Dopo qualche mese Marco venne dalla Direzione "confinato" in un locale isolato. Di fronte ad una debole reazione sindacale, l'Azienda rincara la dose ed aprì quello che tutti i lavoratori chiameranno "il reparto confino".
Nel novembre del 1989 Elio si dichiarò obiettore di coscienza alla produzione militare e chiese il trasferimento al neonato settore civile. La sua richiesta venne accolta, tuttavia, il profilarsi della crisi e della conseguente ristrutturazione offriranno all'azienda un'occasione d'oro per liberarsi in un sol colpo dei due.

Il 7 gennaio 1991 Elio, Marco, il 90% dei componenti il Comitato per la Democrazia e la Solidarietà, di cui Marco faceva parte, il 50% del Collettivo della Fim-Cisl, di cui Elio era responsabile per i problemi della riconversione, furono espulsi in cassa integrazione a zero ore. L'11% dei lavoratori (su oltre 2700) erano stati "tagliati", tra essi molti malati cronici e donne. "La partita era chiusa". Quella "cellula di lavoratori antimilitaristi cresciuta in seno alla fabbrica degli aerei da combattimento" di cui parlava un giornale locale (La Prealpina) il 31 agosto del 1990, scompaginata. La maggior parte dei portatori di idee alternative circa la gestione e lo sbocco della crisi di Aermacchi era ormai privato anche della voce, isolato fisicamente dalla massa dei lavoratori.

E' così che è nato il Comitato dei Cassaintegrati Aermacchi per la Pace e il Diritto al Lavoro. Dalla necessità di Elio P., Marco, Raffaele L., Rossana, Elisabetta, Franco O., Elio C., Antonio, Raffaele C., Franco R., Vincenzo, Ambrogio, Mario e Giuseppe, di reagire all'espulsione, di trovare il modo di gridare con tutto il fiato rimasto che esisteva anche (e ancora) un'altra strada al di là di quella brutale dell'azienda e che, comunque, anche se non la si sarebbe mai percorsa perchè mancava la volontà politica di farlo da parte dei soggetti che l'avrebbero potuto, proprio perchè eticamente corretta essa era anche economicamente e tecnicamente praticabile.

Occorreva insomma riconfermare i contenuti di una battaglia decennale, intensificatasi nei 6 mesi precedenti l'espulsione. Scopo di questa lotta fu anzitutto il tentativo di arginare la deriva lobbistica del sindacato, che a seconda dei casi coinvolgeva una parte (in particolare Fiom e Uilm) o, più raramente, la quasi totalità dei suoi dirigenti (anche della Fim). Tali iniziative sindacali andarono dal rifiuto del "blocco del turn-over" -4 mesi prima della esplicitazione da parte aziendale del ricorso alla Cassa integrazione-, al rifiuto tout-court della Cassa integrazione stessa con lotte "ad alto clamore" in corrispondenza del dibattito parlamentare sulla spesa militare. Si esplicitarono nella richiesta di finanziamenti statali da destinarsi allo sviluppo del nuovo addestratore militare PTS2000 (a fronte di una consegna appena ultimata all'Aeronautica Militare di un centinaio di velivoli MB339), nella rivendicazione della paternità sull'ottenimento di 510 miliardi a favore dei programmi dei caccia AMX ed EFA, il primo dei quali era stato messo in forse dal dibattito sulla riduzione delle forze convenzionali in Europa e soprattutto dalla dissoluzione del nemico, il secondo messo in discussione anche per i suoi costi astronomici, ecc..
A questi comportamenti furono contrapposti, da parte dei lavoratori e delegati di cui si parla, l'applicazione immediata del blocco delle assunzioni, l'uso dei contratti di solidarietà e della cassa integrazione a rotazione, l'adozione di criteri di protezione delle fasce più deboli, la richiesta di iniziative aziendali di riconversione, la definizione di mobilitazioni e lotte per ottenere dallo Stato adeguati finanziamenti ai progetti di diversificazione e riconversione al civile. Il metodo proposto a supporto di tali tesi era la richiesta di un'adesione convinta e diretta dei lavoratori attraverso la discussione e la votazione collettiva nonché l'estensione della piattaforma e della lotta su di essa alle altre aziende del settore aeronautico e militare dato il carattere comune della crisi. Di queste proposte solo una minima parte fu assunta dal sindacato, nonostante il favore che esse avevano riscosso tra i lavoratori. Inoltre, si giunse anche ad operare un vergognoso boicottaggio nei confronti di chi proponeva queste cose, vuoi attraverso l'espropriazione della possibilità di parlare in assemblea, vuoi col rifiuto della consultazione dei lavoratori sulle proposte alternative (voto).

Di fronte alla necessità di riproporre con forza questi obiettivi, ovvero agire per coniugare diritto al Lavoro e diritto alla Pace e di fronte alla necessità di esprimere la totale alterità dei suoi aderenti nei confronti della guerra che si avvicinava, il Comitato decise di iniziare un digiuno in piazza.  Questo sciopero della fame condotto da chi su quegli obiettivi non poteva più "astenersi dal lavoro", era pensato come un digiuno a staffetta per tenere la piazza e l'attenzione della pubblica opinione per almeno una settimana. Durò un mese intero. La Pace non doveva far paura ai lavoratori del settore militare: la società civile, lo Stato avevano l'obbligo di aiutarli a trovare alternative produttive ed occupazionali, era la guerra che doveva far paura.
La roulotte fu installata in piazza del Podestà a Varese il 16 gennaio grazie anche al supporto del Mir-Movimento Nonviolento che cogestì col comitato l'iniziativa. La prima notte di digiuno coincise con l'inizio della nuova grande guerra del Golfo: la botola dell'inferno si era scoperchiata, dentro la roulotte si vegliava ignari.
Ben presto la "Roulotte della Pace" divenne il punto di riferimento di un movimento contro la guerra che coinvolse diversi soggetti in città ed in provincia. Un telefono installato in roulotte e l'uso del fax concesso da Cisl ed Acli, permise collegamenti ben più vasti che fruttarono la solidarietà di alcuni parlamentari nazionali ed europei. Attraverso di essi il Comitato riuscì a far discutere i propri obiettivi in Parlamento (es. presso la XI^ Commissione Lavoro, il Sottosegretariato del medesimo Ministero, i parlamentari presentatori delle proposte di legge sulla riconversione - a questo proposito da questi incontri scaturì pure una proposta di legge popolare sulla riconversione presentata da donne parlamentari di diversi partiti-, ecc.).
Per quegli obiettivi digiunarono una settantina di persone tra cui intellettuali varesini, religiosi, singoli cittadini. Attorno a quegli obiettivi si raccolse una significativa adesione di forze sociali e, almeno a parole, anche di parte del sindacato, delle forze politiche e delle istituzioni: alcuni Consigli Comunali espressero ad es. Ordini del Giorno a favore della riconversione di Aermacchi e delle altre aziende del "distretto industrial-militare" varesino.
Preziosissimo il contributo di gruppi come il Comitato contro la Guerra del Golfo di Busto A..
Quest'ultimo organizzò una rete di solidarietà anche economica che si rivelò di grande aiuto alle figure più deboli operanti in seno al Comitato dei cassaintegrati, permettendo loro di continuare ad occuparsi del perseguimento degli obiettivi che il Comitato stesso si era dato.

Secondo il Comitato una decisa iniziativa di riconversione non era più rinviabile. Essa non solo avrebbe permesso di coniugare diritto alla Pace e diritto al lavoro, ma era la sola via effettivamente praticabile da Aermacchi per mantenere le dimensioni raggiunte. Le iniziative di lobby militare avrebbero potuto solo rallentare il processo di contrazione degli occupati, ma, concorrendo con analoghe spinte di altre aziende ed attori sociali, avrebbero prodotto effetti negativi sulle politiche di sicurezza e di difesa del Paese.

Alla proposta di riconversione la direzione aveva tuttavia già opposto quattro argomenti, mai seriamente contestati dalle organizzazioni sindacali.
L'azienda si sarebbe trovata in svantaggio nel passare  da un mercato artificiale, quale quello "politico" degli aerei da guerra, ad uno non protetto, quale quello concorrenziale dell'aviazione civile, in cui occorre "saper nuotare" con costi competitivi. Il passaggio al civile avrebbe avuto l'effetto di dimezzare i profitti garantiti dai prezzi finali "drogati" dei prodotti bellici. Questo passaggio inoltre, dovendo abbattere i costi, sarebbe stato incompatibile con la salvaguardia dell'occupazione. Inoltre, passando al civile, come l'operazione Dornier 328 dimostrava, sarebbero mutati il know-how aziendale ed i connotati del mix occupazionale operai/impiegati a sfavore dei secondi, tecnici resi inutili da una metamorfosi dell'azienda a terzista su programmi altrui.

A queste affermazioni i lavoratori e i cassaintegrati contrapponevano le seguenti valutazioni: anche il mercato civile aeronautico è un mercato "politico", non regolato dalle dinamiche della domanda e dell'offerta, e soprattutto non determinato in assoluto, in fase di concorrenza, dalla competitività dei costi di produzione. Del sostegno pubblico al mercato civile è prova il piano Airbus, voluto da Francia, Germania e Gran Bretagna ma non dall'Italia, e contestato dagli USA proprio per l'uso di fondi pubblici nazionali e sovrannazionali a copertura dei costi. I margini di profitto del militare sono in declino nel nuovo quadro internazionale, e i problemi dei costi e del "saper nuotare" si sarebbero posti ugualmente. La maggiore efficienza consentita dalle recenti ristrutturazioni produttive, rendendo l'azienda più consona al mercato, avrebbe agevolato la riconversione al civile. La ricerca e la progettazione nel settore civile, se operate in certi settori e se opportunamente finanziate dallo Stato, non erano affatto incompatibili con la tipologia occupazionale dell'azienda. Alcune opportunità offerte dal settore civile si presentavano addirittura anche più promettenti e praticabili che non quelle militari: esempi fatti dai lavoratori comprendevano il settore spaziale, gli aerei antincendio, i ricognitori ecologici, la coprogettazione di velivoli all'idrogeno, l'ingresso nei programmi Airbus, lo sviluppo di particolari produzioni in conto terzi, ecc..
In generale, la riconversione industriale avrebbe dovuto essere sostenuta da opportuni interventi del governo centrale attraverso una nuova domanda pubblica capace di orientare lo sviluppo economico in senso ecopacifista e con leggi e piani finanziari ad hoc (es. con leggi e fondi di riconversione al civile).

Il Comitato era consapevole che una tale operazione di riconversione avrebbe potuto significare sacrifici anche per la "forza lavoro". Secondo il Comitato, tuttavia, tali sacrifici potevano non comportare l'espulsione definitiva o "dolorosa" dei lavoratori. La soluzione stava nell'uso di ammortizzatori sociali più "morbidi" già esistenti come i Contratti di Solidarietà, o di altri da creare ad hoc (venivano proposte misure specifiche "dedicate" agli esuberi  del settore militare, da inserire in quello che era il progetto di legge 223: es. obbligo di sperimentazione -prima dell'uso di misure più drastiche- dei Contratti di Solidarietà e della Cassa Integrazione a rotazione, trasferimento da posto di lavoro a posto di lavoro -pubblico o privato-, corsi di riqualificazione professionale, sostegno aggiuntivo al reddito commisurato a criteri di tutela delle figure più deboli, riduzioni settoriali di orario, prepensionamenti, ecc.).
L'insistenza su queste ultime proposte non avevano "a causa" lo stato economico -non certo felice- dei cassaintegrati del Comitato (950.000 £. nette al mese), bensì una decennale riflessione su due fattori che occorreva fossero necessariamente considerati dai Decision Makers: la peculiarità del mercato del lavoro dell'industria bellica sia in termini di "qualità" delle professionalità coinvolte dai processi di espulsione, sia soprattutto per l'effetto di reazione alla minaccia di disoccupazione che spingeva i lavoratori a lasciarsi "affascinare" dalle facili e sperimentate proposte lobbistiche che puntavano a una domanda bellica aggiuntiva e dunque a nuova spesa militare.
Un tale approccio era inoltre ulteriormente giustificato dalle "attese" relative ai dati occupazionali del settore, per i mesi e degli anni successivi, che indicavano per l'Italia "tagli" di migliaia di posti di lavoro ed in Europa ed in USA per centinaia di migliaia.

Secondo il Comitato, dunque, tra produzione militare e produzione civile la scelta non era economica o strategica, ma prima di tutto culturale, morale e politica.

Per premere su chi quelle scelte poteva fare davvero, il Comitato operò per un anno con iniziative più o meno "clamorose". Praticamente totale era l'egemonia dello stesso sui cassaintegrati, forte l'ascendente delle sue proposte tra i lavoratori che erano però invitati a scegliere tra queste e pervicaci sentimenti aziendalistici o corporativi e ad abbandonare gli atteggiamenti di delega e il pregiudizio cinico e perverso che associa la Pace alla disoccupazione e la guerra al superminimo più alto. In ogni assemblea vi era inoltre il contemporaneo tentativo di smorzare gli effetti di quell'ubriacatura ideologica che quasi da ogni parte, con potenti mezzi di persuasione, esalta come un bene necessario la guerra e le sue tecnologie di morte e legittima come morale, anche agli occhi di tecnici ed operai, qualunque egoismo di gruppo e qualunque strategia d'impresa, non importa per produrre cosa e ai danni di chi.

Adesione alle proposte del Comitato vennero anche da delegati dell'Agusta, dell'Aeritalia (Alenia) di Nerviano e dalla Borletti (Fiat-Ciei) -aziende del distretto industrial/militare varesino-, cosi come da delegati della Piaggio di Finale Ligure e della Aeritalia (Alenia) di Torino.
In particolare, nel luglio del 1991, un gruppo di lavoratrici e lavoratori della Borletti stabilì una roulotte in una piazza di Legnano e a staffetta condusse un analogo sciopero della fame sui medesimi obiettivi del Comitato Aermacchi. In questo caso la lotta fu gestita direttamente dal sindacato Fim-Cisl e, per i suoi obiettivi, digiunò un intero consiglio comunale, sindaco in testa (il paese era quello di S.Giorgio dove aveva sede una delle unità produttive della azienda).
Alcuni obiettivi relativi alla protezione dei lavoratori, già proposti dal Comitato, furono poi conquistati per gli operai e i tecnici Agusta attraverso le stesse lotte sindacali.

Queste iniziative generose non riuscirono tuttavia a coagulare una vera e propria risposta complessiva ed operativa di tipo sindacale e sociale. Convegni sindacali internazionali come quello di Arge-Alp del dicembre 1991 (che coinvolse le segreterie lombarde di Cgil-Cisl-Uil) o quello della Fim-Cisl Nazionale (Bologna, ottobre 1992) non si spinsero oltre il, pur importante, livello di analisi e le proposte ivi formulate non superarono il livello "cartaceo". Ciò spinse il Comitato a farsi veicolo di una proposta di legge regionale per la promozione della riconversione dell'industria bellica appoggiato (e quindi formalmente presentato) da Consiglieri lombardi di diversi partiti (Dc, Dp-Prc, Pci-Pds, Psi, Antiproibizionisti, Verdi-Verdi Arcobaleno).
Il riconoscimento che una conoscenza più diffusa nel territorio della realtà rappresentata dalle industrie belliche avrebbe favorito le spinte alla riconversione, e la convinzione che per meglio definire l'azione di chi avesse voluto operare per la pace -dentro e fuori l'industria militare- era necessario aggiornare il quadro interpretativo della realtà espresso nel pensiero strategico-militare, suggerirono il tentativo di creare il già citato Osservatorio sull'industria militare distrettuale. L'avvio del Gruppo di ricerca fu possibile anche grazie all'interesse espresso attorno al progetto da gruppi di nonviolenti e di comitati contro la guerra operanti nel varesotto ed in particolare grazie alla costituzione di una "Rete di sostegno ai cassaintegrati operanti nell'Osservatorio" stesso.
Se si volesse sintetizzare la nuova coscienza emersa dall'analisi rigorosa del gruppo di ricerca, con le parole dei cassaintegrati Aermacchi, diremmo che si tratta di passare dalla lotta contro l'Apartheid sudafricano alla lotta contro l'Apartheid mondiale.

La lucidità dell'analisi e delle proposte di questi cassaintegrati è forse possibile coglierla anche in episodi come la visita in  Aermacchi, il 28 marzo scorso, alla vigilia delle elezioni politiche -periodo notoriamente carico di promesse elettorali- dell'allora Presidente della Repubblica Cossiga e dell'ex Ministro della Difesa, e propugnatore del Nuovo Modello di Difesa, On. Rognoni, pronti, a sentire i giornali, a cogliere il "grido di dolore che veniva dalle maestranze e dalla proprietà" circa le sorti di una, in passato, così fiorente industria. In quell'occasione i cassaintegrati -anche se dirigenti sindacali-  non solo non furono invitati, ma nemmeno informati dell'arrivo di questi così importanti  interlocutori. E' anche così che vengon curate le ferite indirettamente inferte dall'iniziativa dei cassaintegrati all'immagine aziendale, e che si ripropone il quadro di garanzie scosso dalle proposte alternative.

Il libro si oppone a questo tentativo ed offre invece un contributo che gli autori si augurano possa aiutare a non rimuovere la realtà e dunque possa aiutare a ri-orientare e ri-definire la prassi pacifista e nonviolenta dei soggetti, movimenti ed istituzioni che operano contro la guerra. Quanto segue è un primo suggerimento che può essere colto dalla lettura dei risultati di questa ricerca.
Il testo del Nuovo Modello di Difesa (NMD) offre una nuova rappresentazione alla polarità spaziale "distanza/vicinanza" e nello stesso tempo a quella temporale del "prima/durante". In entrambi i casi tale polarità è dissolta: la distanza coincide con la vicinanza ed il durante non si distingue dal prima.
Con estrema chiarezza il NMD sostiene la necessità sia tutelata la riproduzione del modello di sviluppo industriale capitalistico occidentale ovunque essa sia messa in discussione entro uno qualsiasi dei gangli della interdipendenza mondiale. Ciò è permesso dall'uso di tecniche, di strumenti e di sistemi militari che, potremmo dire, hanno il dono dell'ubiquità. Circa la seconda delle polarità, anche in questo caso le teorizzazioni degli strateghi militari e politici sanzionano una realtà che non si struttura sulla alterità dicotomica del tempo di pace e del tempo di guerra. Tale differenza si stempera in una omologazione cronologica al tempo unico della cosiddetta prevenzione attiva. All'onni-presenza spaziale si associa una onni-presenza temporale in cui è il tempo stesso che "rallenta nel presente" di fronte alla massa materiale e immateriale dei sistemi d'arma che rendono sicuro l'occidente conferendogli una garanzia di onni-potenza.
Non ci sarebbe, dunque, più attimo della nostra esistenza che possa essere pensato come "altro o "fuori" o "immune" dal tempo di guerra: persino il tempo del servizio civile è funzionalmente pensato, previsto e organizzato come momento integrato dello strumento bellico "esercito" a supporto della sua progressiva professionalizzazione.
Cosa dunque dire e fare di fronte ai nuovi conflitti militari, ora che la guerra fredda è finita con la sconfitta dell'"impero del male"? Ma anzitutto, come e dove collocarsi, da parte di chi si dice pacifista o nonviolento di fronte ai Desert Storm, alla guerra su territorio jugoslavo, alle superarmate scorte di viveri per la Somalia, ai conflitti interasiatici che insanguinano popoli dell'ex URSS e che "reclamano l'intervento della NATO"?
La risposta può non essere univoca, tuttavia è opportuno che l'iniziativa di chi voglia essere operatore di Pace tenga conto, nella sostanza come nella forma, della reale configurazione dell'agire (fini, modi, soggetti, oggetti, spazi e tempi) di coloro i quali teorizzano, e praticano, il nuovo concetto di vigilanza militare a guardia del nuovo ordine gerarchico internazionale.
Quali dovrebbero essere gli scopi di una azione pacifista quando il fine della sicurezza nel nuovo pensiero militare, ciò che giustifica la prevenzione armata e l'intervento militare, è la tutela o il ripristino di un interesse economico o culturale (del paese o dell'occidente) ovunque esso sia violato?
Chi e a fianco di chi mobilitarsi, quando il nuovo pensiero militare nasconde l'identità del nemico dietro l'apocalittica immagine di orde barbariche sottosviluppate, spesso connotate da ideologie islamiche? E quando l'iniziativa militare amica può essere presa indifferentemente dal nostro Paese dalla UEO, dalla NATO dall'ONU o da una qualsiasi nuova Alleanza o dagli Stati Uniti di turno?
In che modo dispiegare una azione nonviolenta o pacifista, o come efficacemente affermare il rifiuto della guerra, o contestarne il suo uso, di fronte alla gigantesca dimostrazione di potenza e di efficacia dell'iperguerra moderna?
Dove agire quando il conflitto, che pare avere localizzazione lontana, si dispiega sopra i tuoi cieli, dall'aeroporto vicino alla tua casa, o ha base nel tuo porto, o prende mosse dalla caserma che ti stà dirimpetto, o è un velo che tutto copre con quei fili invisibili di onde elettromagnetiche che si tramano, che si annodano e rimbalzano sopra il tuo tetto, o quando infine la guerra ti si siede davanti quando ti adagi sulla poltrona e pigi il bottone del telecomando?
Quando agire, se le armi usate in quella guerra da entrambi i contendenti sono il frutto di miliardi di ore-lavoro-mente che hanno occupato anche le tue ore, o  riguardano parenti o amici o membri della stessa città in cui vivi, o della stessa provincia? Quando, se quegli elicotteri o quegli aeroplani che hai visto combattere nelle due schiere li hai sentiti, due o dieci anni prima, ronzarti sopra la testa la loro capacità a librarsi in aria, fieri come ipogrifi di razza? Quando, se non esiste più un prima ed un poi ma esiste il tempo uniforme della sicurezza?
Allorquando ci si appresta a prendere decisioni sul da farsi, è sempre opportuno, cercare di evitare le distorsioni percettive della realtà derivanti da modelli obsoleti di interpretazione della stessa. Questo rischio ci pare oggi più che mai presente, portandoci a fare i conti con rappresentazioni mentali o giuridico-istituzionali dei rapporti internazionali che sembrano ancora efficaci, quando ormai nei fatti, e qualche volta anche nella forma, risultano entrambe superate.
Il libro, frutto di una ricerca ancor più vasta di quanto in esso non trovi espressione, vuole aiutare a fare chiarezza su queste nuove coordinate della realtà.

Dall’introduzione del libro “Nuovo ordine militare internazionale. Strategie. costi, alternative”
(autori: V. Caimi, F. Carcano, E. Pagani, R. Romano, A.S. Rossi, M. Tamborini; Ed. Gruppo Abele, 1993)


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